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"Zitelle e Cornuti", documento di spiate circostanze

  • 5 giugno 2006

Antonio Ravì Monica nel suo romanzo d’esordio “Zitelle e Cornuti” (Editrice Zona, euro 15) costruisce il suo Paese delle non Meraviglie, la sua Isola che c’è, sgranando con i chi, come, dove e perché i portafogli di una comunità inciuciata, nata da una fantasia rubiconda ed ispirata ad una realtà da dietro l’angolo. I ghiandesi sono davvero abitanti di una contrada immaginaria? I sensi regnano, l’udito padroneggia poiché dote fondamentale nella compagine degli attori dalla quotidianità cenciosa, lisa dai chiacchiericci e dalle occhiate maleodoranti degli spioni del paese. Lungometraggio scritto, soffiato in un’ambientazione rievocante tonalità à la "Lettera Scarlatta" con padri fondatori che lasciano posto alle sciatte e contorte personalità inquisitorie dei ghiandesi.

Ogni masnada dedita all’Indice ha un capobanda e il nome che arroga tale ruolo è quello della Contessa Mugaci, contessa miseria e misera, appollaiata nel suo palazzo a spiare e filare, tramare e ricamare, talvolta inventando per non tradire quanto immaginato nelle vite dei cittadini sudditi; nascondendo accuratamente le sue compravendite amorose consumate nel buio baldacchino della camera da letto con la pingue e astuta badante Vincenzina. Un paese, quello della Contrada delle Ghiande, più spiato che vissuto, trafugato tra i ritmi di vassalli e valvassori, servilismi di convenienza, rospi ingoiati, maldicenze e malevolenze. Chi è l’eretico di turno? A subire il linciaggio del perbenismo sono la docile Laura, vedova gravida che viene tacciata da lettere gocciolanti la parola troia, la singolarità disattenta e distaccata di Lilla e Pippo e della rivoluzionaria Camilla, e l’adolescenziale innamoramento di Marco e Anna, con l’ambientazione baglioniana del loro amore e l’intromissione fraudolenta del padre di lei, sindaco millantatore.

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Ognuno veicola la vita altrui e mai la propria; s’architettano interdizioni, cavilli legali, sabotaggi elettorali, inciuci di ogni tipo. L’epilogo è il dispiegarsi delle storie nate e di quelle taciute, c’è il bene che trionfa sul male e il male che trionfa sul male, poiché al peggio non vi è mai fine. La conclusione non distorce l’anima del libro, variegata nel suo accomiatarsi, trattiene il fascinoso olezzare favolistico non discostandosi mai dalla morale di una realtà vissuta più che inventata, mai del tutto a buon fine, con l’amaro dei compromessi, di regole distorte, di sopraffazioni e cambiamenti abiurati. La fine non è tale perché è altro buco della serratura su una delle storie di pazzia indotta e sospesa.

Le parole scorrono, in uno stile fresco e corpulento, mai monocromatico seppur non sfoderino colpi di scena, tributando un genere narrativo oggigiorno surclassato da thriller esoterici, best seller a sei cifre e noir vernacolari. I toni trasognati si concedono sprazzi colloquiali quasi documentaristici, chi non riconosce una contessa Mugaci, tra le mire imperialistiche del proprio capo? Un sindaco Portone e le sue abiezioni elettorali tra i tanti arrotini politici e candidature naif? Gli inquisitori commedianti nel dirimpettaio impiccione o nell’ultrasettantenne vecchietta del quarto piano sospesi nel sottoscala circondariale con i propri santi, usi, superstizioni e cicalecci di Zitelle e Cornuti? Un libro adatto agli accaldati aliti di questo periodo, da leggersi tutto d’un fiato per poi all’ultimo sospiro chiedersi: ma Ravì chi ha spiato?

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