TRADIZIONI

HomeNewsFood & WineTradizioni

Se lo tiri, si allunga e diventa dorato: qual è il dolce dell'Immacolata "ru ziu ru zuccaru"

Su una lastra in marmo versava il liquido ambrato riscaldato in un pentolone e, dopo essersi specchiato nel suo riflesso, con una spatola ne spingeva le estremità

Francesca Garofalo
Giornalista pubblicista e copywriter
  • 8 dicembre 2023

"Zuccaro" dolce siracusano (Foto di Michele Buonuomo responsabile di Siracusa nel Mondo)

"Signori e signore: ‘a ciccibbella", "U zuccaru che bello!", tuonava una voce molti anni fa per le strade di Siracusa. Era quella d’u ziu ro zuccaru. Una figura tra il mitologico e l'umano che per le vie della città aretusea batteva un coltello su coperchi da cucina per invogliare uno scambio con i vogliosi: un pezzo di ferro vecchio, per un bastoncino di zuccaro.

Un dolce a base di miele e zucchero, ante anni ‘50, tipico della festa dell'Immacolata l’8 dicembre e immancabile anche il 13 dicembre, durante la celebrazione della Santa patrona, Lucia.

I luoghi dove "tentare" con lo zuccaro erano strategici e scelti accuratamente: la Chiesa dell'Immacolata e quella di San Filippo a Ortigia e la Basilica di Santa Lucia al Sepolcro, nell'omonimo quartiere.

Dopo la messa, infatti, i cristiani andavano a caccia del suo piccolo stand, riconoscibile da un gancio simile a quello delle macellerie. A questo punto, avvolti da una nube di caldarroste o mandorle tostate si assisteva, quasi sotto incantesimo, alla lavorazione a caldo di questo dolce per cui il tempismo e le basse temperature erano tutto sia per la riuscita, che per la tipica consistenza solida.
Adv
Su una lastra in marmo oleata il suo creatore versava il liquido ambrato riscaldato dentro un pentolone e, dopo essersi specchiato nel suo riflesso per qualche secondo, con una spatola iniziava a spingere le estremità del composto verso il centro. E così via: dall'esterno verso l'interno la distesa si innalzava e cedeva sul suo peso, fino a quando addensava un po'.

Poi, c’era il momento della lavorazione a mano, quasi fosse una pasta lievitata.

Allunga e tira, tira e allunga i lembi ed ecco che dall'ambra il colore prendeva le sfumature dell’oro. Le mani di amianto, dunque, lasciavano il posto al gancio, presidio per quella miscela sempre più consistente. A mo' di elastico appeso, iniziavano i giri su se stesso e il mastro, quasi fosse davanti a una fatica del mitico Ercole, non si dava mai per vinto.

C’erano solo lui, il gancio e quel composto elastico di zucchero e miele da girare, intrecciare e modellare. E se proprio le forze non lo accompagnavano, arrivava un altro mastro fidato che conosceva i punti deboli di quel "nemico" zuccheroso. Il giro completo avveniva, mentre gli astanti osservavano con ammirazione cotanta forza e goduria.

Un round uno contro uno incitato da un "Tira ca allonga" di alcuni patiti tra folla.

Il profumo, nel frattempo, inebriava i sensi e l'acquolina si palesava sulle labbra di grandi e piccoli fino a quando, dopo tanta resistenza, ecco la vittoria: una colonna di avorio luminoso. L'esclamazione "Wow", troppo semplicistica per tale magnificenza, lasciava spazio a "E cchi è oru?!" e poco dopo a un invito all'azione: "Tagghiamu!".

Tornato al bancone in marmo, il mastro separava dal composto delle piccole porzioni che, arrotolate, diventavano una treccia da gustare muniti di salivazione abbondante.

Un pezzo di quel dolce, la cui bontà era tale da delegare pure l’acquisto ad amici e parenti, che oggi non si trova facilmente, se non più. Ma checchè se ne dicesse, specie sulle norme igieniche, valeva sempre l'attesa.

E una volta gustato, di esso rimaneva solo una velina trasparente e appiccicosa, memore di quell’essere favoloso e la leggendaria fatica che si aspettava con ansia ogni anno.
Se ti è piaciuto questo articolo, continua a seguirci...
Iscriviti alla newsletter
Cliccando su "Iscriviti" confermo di aver preso visione dell'informativa sul trattamento dei dati.

GLI ARTICOLI PIÙ LETTI