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L'onda (anomala) che travolse Palermo: perché il Kemonia è il fiume del Malotempo

Tagliava in due il quartiere Ballarò. Questo “malo” non era messo a caso: ha fatto piangere (e pure parecchio) i palermitani. La sua storia tra natura e "imbrogghi"

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 8 maggio 2024

Totuccio guarda dalla finestra ed è triste perché fuori piove. Totuccio però non sa che abitando in viale Regione Siciliana, tra poco si formerà un fiume, arriveranno le barche e si potrà fare lo scii acquatico. Se avesse studiato saprebbe che quella delle strade acquatiche a Palermo è una specialità fin dai tempi del fiume del Malotempo, alias Kemonia.

Questo “malo” non era messo lì per caso, stava proprio a indicare tutte le volte che il malocarattere del fiume veniva fuori e faceva piangere non pochi palermitani.

Su tutte, la grande alluvione del 1557. Per inculcargli un po’ di allitteramento a Totuccio, e capire anche noi cu fu e come fu, dobbiamo però fare un salto indietro. Palermo era diversa da come la vediamo oggi. Non c’era via Maqueda, la Fontana Pretoria era ancora a Firenze (nel giardino del palazzo della granduchessa Eleonora di Toledo) e di Canti, altro che quattro, ancora non ce ne stava manco mezzo.
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In compenso avevamo ben tre fiumi, di cui due attraversavano la città di allora: il Papireto e il Kemonia (o Cannizzaro), che sgorgava dalla Fossa della Garofala e tagliava il quartiere di Ballarò, dove c’era un ponticello per attraversarlo, oggi via del Ponticello (In un nostro articolo un approfondimento sui fiumi di Palermo).

La Sicilia tutta era dominata dalla corona spagnola che si leccava la sarda, in quanto re Fulippo II, figghio del più famoso Carlo V, piangeva in cinese perché suo padre gli aveva lasciato più debiti che capelli in testa. Intanto come pontefice avevamo un certo Papa Paolo IV, un fanatico dell’inquisizione romana e hater degli spagnoli.

La Spagna, a Paolo, gli stava talmente sul prepuzio sacrale che dove poteva fargli sfregio glielo faceva. Non solo si era alleato coi francesi, in più aveva dato il via alla guerra del sale, raddoppiando i dazi su quello proveniente dalle saline siciliane.

In tutto questo, com’erano i rapporti tra Fulippo II e i francesi? Carcagnate, tirate di capelli e sputazzate. Papa Paolo però teneva un nemico a Palermo che se la faceva con i suoi nemici: il cardinale Pietro Tagliavia D’Aragona. Picciotto di buona famiglia e bravo negli studi, bruciò le tappe laureandosi cardinale nel 1553 con 110 & lode a Cristo.

Il punto è che i cardinali, oltre a portare la coppola rossa, esprimono il loro voto al conclave. In quello del 1555 - si “portava” proprio Paolo - Pitrino Tagliavia ovviamente gli votò contro. Ecco perché gli calava come un Plumcake a cannarozzo secco senz’acqua. Oltre tutto il Tagliavia, proprio in quegli anni, ricopriva anche la carica di Presidente del Regno di Sicilia, ovvero reggente del Viceré Vega, che se ne era andato in prepensionamento perché gli era siddiato pure a campare.

Era in questo clima di convivialità che il nuovo Viceré Juan De La Cerda, il 7 maggio del 1557, metteva culo a Palermo, sbarcando con le sue galee alla Cala. Deve averlo capito subito dal caldo e dalle zanzare, che la bella stagione a venire sarebbe stata bella solo a parole. Infatti, come volevasi dimostrare, fece un’estate ‘mpiccicusa e siccitosa.

Luglio si portò via giugno, agosto si portò appresso luglio. Fu settembre e di pioggia manco per i peli di Sant’Onofrio.

Improvvisamente, la notte tra il 21 e il 22 settembre ecco un tronu a squarciare u cielo di Palermo. E tutti i cristiani ‘nmenzu li strati ad arrifriscarsi ca finìu la ‘stati. Tornò la pioggia, tutti felici, tutti contenti. U re Fulippo s’arricogghi un catu i lippo, u cardinale quannu chiovi si sente sempri male, un viceré spera ca chiovi oggi e dumani arrè. Piove oggi, piove domani, piove tutti i giorni fino addì 27.

Macchì, è vero e verità, ci vuole u vento in chiesa, ma no c’havi astutari ‘i cannili. Tutta così passò la jurnata, di la matina fino a serata. E quando i palermitani di Ballarò, riuniti intorno a un tavolo (per chi ce l’aveva), addumàrono la televisione per vedere che diceva il meteo, ecco che dal Kemonia un intenso scroscio e potente feto.

La diga costruita tre anni prima all’altezza del ponte Corleone, che aveva il compito di convogliare le acque di Monreale e deviarle nel fiume Oreto, si ruppe i cosiddetti, salutò a tutti, e decise di andarsene pure lei in prepensionamento.

L’onda anomala, rimpolpando il fiume del Malotempo, arrivò intorno alle 20.00, abbattendosi sul quartiere di Ballarò, mentre Giuliacci annunciava «nubi sparse e nebbia in Val Padana». A prima matinata del 28, il fiume di fango si era ormai fatto strada per tutta Palermo, fino alla Cala, da dove era arrivato u viceré De La Cerda.

Si parlò di 2.000 morti, 1.000 case distrutte e chissà quanti altri danni. Menomale ca ci stava cardinale Tagliavia per la via. Eh, che cosa avrebbero dovuto fare i palermitani se in mezzo al Viva Maria, non avesse indetto tre giorni di penitenza, digiuni a intermittenza e processioni a tignitè?

U viceré! Unni sinnìu u viceré? U viceré era con Don Pietro d’Agostino, il Mastro Razionale, che sulla tragedia aveva fatto una relazione e gliel’aveva portato a mano, perché ‘ammancava lu postino. E qua uscirono i soliti imbrogghi. Era stato il Senato palermitano, preso dalla febbre dei lavori pubblici, a costruire la diga.

Questo non tanto per la fantaminkiata di deviare le acque nel fiume Oreto, quanto per rendere edificabili i terreni esposti a inondazioni, vendere a due spiccioli e rilasciare licenze edilizie attipo biglietti del tram. Insomma, c’è cu ci appizzò e c’è cu ci manciò.

Totuccio sta ancora affacciato alla finestra a guardare Viale Regione e vede la gente fare il bagno e tuffarsi dai pedalò. È tentato di scendere a raccontare a tutti la storia del fiume del Malotempo. Totuccio però non lo fa, perché è scaltro e sa che la gente campa meglio quando le cose non le sa.
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