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Tutta colpa di quella cataprasima di moglie: l'Inquisizione raccontata "a pane e panelle"

Dall'inquisitore generale al notaio dei sequestri, passando per i "mangia e bevi" viventi: ecco come funzionava quella bella pensata della Santa Inquisizione in Sicilia

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 5 giugno 2020

Il dipinto di Francisco Rizi "Autodafé in Piaza Mayor a Madrid" (1683) Museo del Prado

Il tribunale dell’inquisizione è quella bella pensata che gli venne a Ferdinando il Cattolico e quell’altra cataprasima di sua moglie con cui, con la scusa di combattere eretici, marrani (in spagnolo vuol dire maiale e lo usavano per indicare gli ebrei), mussulmani e tutti quelli che in poche parole non gli calavano, fecero un miliardo e mezzo di danno.

Velocissimamente, perché già lo abbiamo accennato in altro articolo, diremo che viene nominato a capo di questa porcheria uno che si chiama Torquemada e nel 1492, mentre il tom tom di Cristoforo Colombo commette il più grande errore nella storia dei navigatori e gli fa scoprire l’America, emanano il famoso editto che farà un altro miliardo e mezzo di
danno.

Già, ma come funzionava sta “Santa Inquisizione in Sicilia?”

Intanto c’era uno che aveva la carica di “Inquisitore Generale”, era quello più potente di tutti, che si allattariava dalla mattina alla sera e si portava appresso altri due un po’ più piccoli che gli davano aiuto; in pratica era uno un po’ più grosso e lungo che stava in mezzo e due più piccoli (ogni riferimento è puramente casuale).
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Poi c’era il “notaio del segreto” che era tipo l’appuntato che prende appunti (forse per questo si chiama appuntato) quando andiamo a fare una denuncia, solo che lui trascriveva tutto quello che diceva il povero cristo di turno che veniva interrogato. In aggiunta, e per me questo è più il brutto di tutti, c’era il “Notaio dei sequestri”.

Per farvi meglio capire questa bellissima figura immaginate che, dopo una settimana di lavoro, una domenica mattina alle sette sentite suonare al citofono. “Chi è?” “Signora sono l’ufficiale giudiziario, cheffà mi fa salire?”. Benissimo, questo era il notaio dei sequestri: uno che appena entrava in casa dell’accusato faceva tre miliardi di danno.

Abbiamo pure “l’alguazil” che era il capo delle carceri che eseguiva, fra l’altro, pure gli arresti che avvenivano quasi sempre nelle mattinate, tipo blitz, per evitare che il mischino se ne scappottasse. Dulcis in fundo, e questi per la forte antipatia sono da biochetasi, c’erano i “familiari”.

I familiari erano in pratica dei “punciuti” perché nessuno sapeva chi fossero, ma fra loro si conoscevano eccome, che avevano il solo compito di fare i capuzzelli di borgata e andare a raccontare tutto, ma proprio tutto, quello che faceva il vicino di casa o dirimpettaio. Per farla breve, non si poteva stare tranquilli con questi grandi sparlettieri perché pure il tuo migliore amico poteva essere un "familiare".

Non solo manco valevano una lira di per sé come categoria ma, spesso e volentieri, siccome quest’occhio non può vedere l’altro, si inventavano una bella fesseria sul vostro conto del tipo: «Eccellenza, quel gran cornuto Gianluca Tantillo non mangia carne di maiale da un mese: secondo me, gatta ci cova…» e, in quattro e quattr’otto, vi consumavano (anche perché per mandarvi a processo bastava una, e dico una, testimonianza).

Non era raro infatti che solamente perché avevate preso un terno secco a Palermo o erano invidiosi di voi, familiari e inquisitori, s’inventavano una bella storiella e vi mettevano in croce per spartirsi le vostre proprietà.

In breve tempo la situazione scappò così di mano che pure il grande capo Torquemada scrisse più di una lettera agli inquisitori in Sicilia dicendogli: "Caimmativi u sangu!" ma a loro, che tanto si facevano forti co’ sta cosa dello statuto speciale, da un orecchio gli entrava e dell’altro gli usciva.

Questa cattiva nomea corse per tutta l’Europa seminando preoccupazione fra mercanti e marinai che di viaggi, giustamente, vivevano. E ogni volta che qualche genovese o pisano si trovava a scendere al Sud puntualmente partivano le raccomandazioni alla Johnny Stecchino: "Se vai a Palermo, non toccare le banane!".

Basti pensare che secondo le stime della grandissima Maria Sofia Messana, che è stata la Maradona degli studi sull’inquisizione, solo il 10% degli inquisiti viene assolto. In pratica è una scanna.

Infine, al termine di tutte le fasi processuali, c’era la parte più bella di tutte: “l’autodafe” (atto di fede, significa). Questa era una bellissima processione che terminava con la stigghiolatura dei rei: in pratica i condannati venivano appizzati a
un palo - il più delle volte a piazza Marina o piazza Sant’Erasmo - e facevano la fine delle stigghiola sulla carbonella.

«Ma come, direte voi, i padri inquisitori, che erano comunque uomini di chiesa, avevano sta fissazione per le arrostitine?». Certo che no, è qui che c’è la fottuta! Una volta condannati, infatti, "i mangia e bevi" viventi, venivano affidati a un istituto civile che si chiamava “Braccio Secolare” ed era loro competenza preoccuparsi del servizio sauna. In questo modo gli inquisitori se ne lavavano le mani e potevano dormire sonni tranquilli.

L’atto di fede era anche un evento pubblico a cui partecipava in gran numero il popolo che in cambio riceveva le indulgenze e nella piazza venivano montati palchi su cui ci stavano i nobili, una sorta di tribuna vip, per intenderci, all’interno della quale passavano pure i venditori ambulanti che gridando: "Cocco bello! Cocco bello!", allietavano l’attesa di questi privilegiati signori.

I condannati, invece, prima venivano vestiti con il "sambenito", un abitello giallo con delle fiammelle disegnate, in tutto e per tutto somigliante quello che Geppetto fa a Pinocchio con la cartapesta, e poi venivano fatti camminare avanti e indietro per il Cassaro per subire pubblica umiliazione.

Giunti nella piazza in festa, il condannato, perché ancora non ha patito abbastanza, deve chiedere un'altra volta perdono davanti a tutti: se è fortunato, perché quel giorno i membri del tribunale si sono alzati col piede giusto, lo strozzano prima di mandarlo al rogo, se non è fortunato lo cospargono di pece e quello che succede succede.

Per fortuna però non sono tutti a fare questa fine: ci sono pure i "riconciliati", cioè coloro che fanno pace con il Santo Tribunale e vengono perdonati. Sono così fortunati questi "riconciliati" che se gli va male finiscono su delle navi che si chiamano "galere" a remare per anni dove la maggior parte delle volte muoiono.

Se gli va bene gli vengono sequestrate tutte cose, non potranno più riprendere attività di commercio ne di nessun genere e, spesso, saranno costretti a portare l’abito di Pinocchio, che dicevamo sopra, per tutta la vita e a chiedere l’elemosina.

Bella cosa stu Santo Tribunale!
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